
Viviamo in un’era che si compiace di non avere più eroi.
Brecht diceva: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, pensando al sanguinoso macello della seconda guerra mondiale che infuriava fuori dalla sua finestra, desertificando il mondo.
Allora quella frase era giusta e sacrosanta, oggi invece la mancanza di eroi è solo collegata alla desolante mancanza di valori e di princìpi che annichilisce la nostra civiltà europea.
C’è eroismo ed eroismo.
L’eroismo autentico, a mio modo di vedere, non è l’esibizione di muscoli morali gonfiati al silicone, bensì la semplicità – spesso inconsapevole – che affronta realtà anche terribili, mettendo in gioco la propria vita per valori irrinunciabili, con la spontaneità con cui si assolvono i doveri quotidiani pure quando sono spiacevoli, senza alcun piacere di farlo ma senza nemmeno pensare di tirarsi indietro.
In questo senso per me eroe è Dietrich Bonhoeffer, il teologo e pastore evangelico tedesco salito sul patibolo del lager di Flossemburg, a soli 39 anni, il 9 aprile 1945, in quanto sospettato d’aver partecipato ad una congiura contro Hitler.
Bonhoeffer amava dire che il cristiano non è un furbo che fa un’assicurazione sulla vita eterna.
Ribadiva l’obbligo, per chi si dichiara seguace di Gesù, di essere, come voleva Nietzsche, “ fedele alla terra ”, alla sua miseria, alla fame e alla morte, senza ricorrere al vile trucco di rifugiarsi, quando la vita diventa difficile e pericolosa, “nelle cosiddette regioni eterne”.
Una fuga nell’aldilà, egli dice, tradisce il messaggio cristiano; non per nulla il Dio cristiano si è fatto uomo, si è calato nel tempo, nella storia, nella mondanità, nella carne.
La parabola umana di Bonhoeffer è una vera testimonianza di martirio per la fedeltà alla terra del Mysterium Incarnationis.
Era andato, in qualità di pastore evangelico, a prestare il suo operato in comunità protestanti degli Stati Uniti, raccomandato da parenti ed amici a rimanervi, visto che era il 1939, il terribile anno d’inizio della seconda guerra mondiale.
Egli invece volle partire con l’ultima nave tedesca che rientrava in patria, poco prima dell’inizio del conflitto bellico, per condividere, disse, la condizione della sua nazione.
Sapeva bene che il nazismo era la negazione cristiana, l’avvento dell’Anticristo – durato per fortuna meno della mia giacca a vento -; ma accettava il rischio, per affermare a quante più persone possibili che era ingiusto e per combatterlo.
Gesù non è venuto a creare un’altra religione-istituzione che promette vita comoda, ma a chiedere al cuore dell’uomo un cambiamento, faticoso quanto spesso pericoloso.
“Guarda che devi cambiare”, è questo il monito che trapela non scritto dai Vangeli.
Per Gesù il mondo così com’è va cambiato e si è sempre in cammino verso una trasformazione interiore, una rivoluzione disarmata che porti la novità innanzitutto nel nostro cuore, e poi al resto delle persone.
La novità è l’amore.
La novità più antica dell’Universo.
Per questo il cambiamento non potrà mai venire dall’imposizione delle armi, ma solo dalla volontà d’ognuno di noi, in quel supremo atto di civiltà che è il donarsi per gli altri in nome di princìpi sacrosanti.
Così come il cambiamento non potrà mai avvenire, se ci rifiutiamo di affrontare il male, che è sempre la mancanza d’amore e di pietà verso l’essere umano.
Bonhoeffer scriveva alla sua fidanzata, mentre era imprigionato a Buchenwald, prima della sua esecuzione a Flossemburg:
“ Il nostro matrimonio – Dietrich immaginava un evento che purtroppo non avverrà mai – sarà un sì alla terra di Dio; esso irrobustirà il nostro coraggio ad agire, e a compiere qualcosa sulla terra.”
Sempre nelle stesse lettere alla fidanzata, Dietrich le scriveva che non aveva alcuna voglia né compiacimento o entusiasmo nel fare il martire; spesso le diceva che non aveva nessuna voglia di vedere Dio anzitempo, ma che avrebbe dato tutti i suoi averi per riabbracciare lei.
Nello stesso tempo le diceva che non ci pensava nemmeno a cedere e a tirarsi indietro, con serena fermezza.
L’ultima testimonianza è quella del medico del campo di Flossenburg dove Bonhoeffer fu impiccato dai nazisti.
Il medico scrisse: "la mattina di quel giorno (9 aprile) tra le 5 e le 6, i prigionieri furono fatti uscire dalla cella e fu letto l’atto di accusa.
Dalla porta socchiusa di una cella della baracca, poco prima della consegna della casacca dei prigionieri, vidi il pastore Bonhoeffer inginocchiato, immerso in un’intensa preghiera con il suo Dio.
Il modo di pregare di quell’uomo così simpatico, pieno di abbandono e di fiducia, mi scosse profondamente.
Ai piedi della forca si fermò ancora un breve istante in preghiera, indi salì coraggioso e rassegnato la scala. La morte seguì dopo pochi secondi. Mai nella mia carriera medica, vidi un uomo morire con tanta fiducia in Dio."
“Se un giorno mi trovassi nella Kurfurstenstrasse (una delle principali strade nel centro di Berlino) e mi venisse incontro un pazzo, alla guida di un'automobile, che investe i passanti, quale sarebbe il mio compito di Pastore? Seppellire i morti e curare i feriti o anche di cercare di arrestare quel pazzo?"
Così rispose Bonhoeffer ad un suo compagno di prigionia che gli chiedeva perché pur essendo pastore, avesse partecipato alla Resistenza.
Questo senso di responsabilità era la sua fedeltà al mondo, dove il fulcro di questa fedeltà alla terra non era l’ebbro vitalismo o il cocciuto immanentismo della volontà di Potenza dell’ultimo Netzsche, ma poggiava sull’insegnamento di Gesù di Nazareth, il Dio che si è fatto uomo per insegnarci ad amare e a combattere l’odio.
Sia pietà per l’eroe.