

..…tutti i vecchi terrori erano di nuovo
lì, annidati…Infuriato fino alle lacrime
per la propria codardia, andò avanti e
indietro, agitato, sull'ultimo gradino
davanti l'ingresso, ora tendendo
l'orecchio per cogliere qualche rumore
per le scale.
HENRY ROTH
(Chiamalo Sonno)
L'ASPIDISTRA
Mi annoiavo. Le sorelle Calzavara, nostre vicine di casa, riempivano di suoni e di calore il loro soggiorno; erano ragazze giovani, chiassose e ridanciane.
Da un enorme apparecchio radiofonico, che troneggiava nella stanza al posto d'onore, veniva una canzonetta allegra.
C'era chi di loro cantava, chi lavorava a maglia e chi sfogliava dei giornali di moda; erano solo quattro sorelle, ma facevano per otto.
Io ero lì, forse la mamma per qualche sua esigenza mi aveva affidato a loro. La mia presenza non disturbava nessuno, anzi il mio silenzio faceva sì che diventassi invisibile. L'angolo più nascosto era il mio.
Mi annoiavo! Il tempo non passava mai. Il tempo è relativo. Ho letto da qualche parte, non so quando né dove: l'attesa di pochi minuti di un bambino piccolo si trasforma in ore di tedio.
Nessuno badava a me, presi la decisione di andare in perlustrazione, uscii lentamente sul pianerottolo semi buio. La poca luce veniva, oltre che dalla porta socchiusa del soggiorno, anche da un baluginante lumino messo forse a far da compagnia a qualche vecchia fotografia di un parente defunto o ad un santino, non so.
Nell'angolo più buio, dove iniziava la scala che scendeva al pianoterra, c'era per abbellimento un altissimo sgabello quadrato diviso in due piani, tipico di quel tempo. Ora questi simpatici mobiletti si recuperano dai venditori di robe vecchie.
Non c'era casa che non avesse il suo bravo portafiori, e sopra di esso faceva bella mostra di sé un'enorme pianta di aspidistra. Questa pianta era molto usata dalle donne di casa di quel tempo, perché adornava con le sue foglie lucide, grandi e lanceolate le zone buie delle scale. Essa non soffriva molto per la mancanza di luce. Sul piano inferiore dello sgabello c'erano due grandi bambole impolverate e i loro occhi azzurri semichiusi mi fissavano. Pian pianino, senza far rumore, le tolsi e mi sedetti al loro posto.
La felicità poco durò, il tempo non passava mai. Nella penombra il lumino si stava spegnendo e come ogni brava candela, prima di morire, allungava la sua fiammella tremolante che illuminava sinistramente il muro e la fotografia. Io vedevo occhi e mostri. Cercai di uscire da quella trappola infernale. Il mio rifugio caldo e illuminato era lontano. Mi ero incastrata così bene che, qualsiasi movimento facessi, sentivo dondolare l'enorme pianta che si trovava sullo sgabello. Uscii faticosamente da quella posizione scomoda e contemporaneamente il vaso con l'aspidistra cadde per terra. Sentii un rumore tremendo e tutta tremante guardai la lama di luce che usciva dal soggiorno, aspettavo le quattro ragazze arrabbiate…forse la radio a pieno volume e il loro chiacchierare avevano attutito il botto da me provocato. Sconsolata guardai sul pavimento i cocci, la terra sparsa e la pianta malconcia: il loro volume si era decuplicato. L'avevo combinata grossa.
Non ebbi il coraggio di affrontare il peggio e…senza pensarci sù, scesi quegli scalini piano e al buio, sapevo che mi avrebbero condotto dalla mamma, volevo solo lei. Avevo un enorme bisogno della sua protezione. Aprii facilmente il portoncino e di corsa attraversai la strada che mi portava a casa, ma il campanello del mio agognato rifugio era posto troppo in alto e per quanti sforzi facessi non riuscivo nemmeno a sfiorarlo. Quando vedevo qualche passante, mi nascondevo dietro una colonna del portico.
Ero disperata…era forse sera e il buio mi faceva paura. Mi decisi e andai verso la luce che proveniva dal corso principale. Passo dopo passo mi avviai verso un altro rifugio, cercando di non farmi vedere dai negozianti. All'altezza del Teatro Comunale attraversai il Corso Vittorio Emanuele. Disperata corsi verso l'albergo Baglioni, mi sentii quasi a casa, la meta era vicina. Girai l'angolo e mi trovai sulla strada che porta in Piazza Vittoria.
Feci l'ultimo tratto con il cuore in gola e abbassai la maniglia d'ottone della portiera…l'aprii ed entrai. La nonna che era vicino alla stufa in fondo alla sala. Si girò al rumore, mi guardò e mi chiese: “dov'è la mamma?”…E non ricordo più nulla.
Dal “Muro dietro la porta”